Femminicidio: il punto di vista timologico[1]

I recenti eventi, collegati al caso dell’uccisione Giulia Cecchettin, hanno sollevato un intenso dibattito intorno alla tremenda piaga del femminicidio.

I vari esperti, che si sono avventurati nel compito di dare una spiegazione, hanno espresso più di un’interpretazione sul fatto singolare e sul fenomeno in generale. Ho sentito varie volte invocare il concetto di patriarcato per dare una interpretazione ai fatti. Il termine patriarcato (da πατήρ “padre” e ἄρχω “il primo, il comando”) è il riferirsi al dominio autocratico da parte del capo maschio di una famiglia, dentro un sistema sociale in cui il potere è detenuto da uomini adulti.

Che la nostra società riservi i posti apicali di potere ai maschi è abbastanza evidente, sia da un punto di vista sociale, che economico e politico. Di fatto la condizione femminile non si è ancora avvicinata alla parità con la condizione maschile e la mente maschile fa intimamente fatica ad accettarlo. Ma nel caso specifico dell’uccisione di Giulia Cecchettin non è sufficente il ricorso a questo concetto per spiegare l’agire distruttivo verso la donna, del quale abbiamo avuto, invece, i terribili esempi di Saman Abbas, diciottenne, massacrata dallo zio e dal cugino per ordine dei genitori, perché si rifiutava di sposare l’uomo designato dal padre e il caso di Hina Saleem, ventenne, uccisa sgozzata dal padre e sepolta nel giardino di casa a Sarezzo Brescia.

Il punto di vista timologico vede in questa crisi i segni di un analfabetismo emotivo montante e tragico. Le emozioni hanno tre vie di sbocco: diventano comunicazione quando si traducono in parole e dialogo. Mentre vengono invece rimosse in presenza di incapacità a riconoscerle o per alessitimia, che è l’incompetenza a identificarle ed esprimerle. Più spesso l’emozione viene invece agita e tradotta direttamente in azioni, che nel caso di emozione negativa, può tradursi in violenza.

Possessività. La parola centrale che interviene nel definire la relazione di copia è l’aggettivo possessivo singolare mio o mia. Ora dire la mia auto o il mio smartphone non è la stessa cosa del dire la mia fidanzata. Il mio smartphone è possesso, è cosa nella mia disposizione ed uso, sulla quale ho il controllo. Usare l’aggettivo mio con lo stesso significato applicato alla fidanzata, è il ridurla a proprietà, ad oggetto, e si chiama schiavitù il possesso di un altro essere umano. E in effetti, chi è dentro questo atteggiamento, pratica comportamenti di controllo ossessivo sull’Altra. Si viene a sapere che inoltre reclama d’essere sempre informato sull’Altra: su cosa fa, dove e con chi interagisce, pretendendo di stabilire le regole dei suoi comportamenti, facendo passare la gelosia e la pretesa di disponibilità possessiva per amore. Di contro il maschio possessivo non accetta minimamente lo reciprocità di comportamento riferito a sé. La relazione che poggia sul vincolo di possesso è altamente caratterizzata dalla messa in atto di comportamenti di controllo, è disfunzionale e carica di aggressività.

Appartenenza. Quando l’aggettivo mio precede una persona non può e non deve mai essere inteso come possesso, ma come appartenenza relazionale (ap-partenenza, dalla parte-di): “Io sono dalla tua parte e tu sei dalla mia parte”. Non si tratta di vincolo di proprietà, ma di reciprocità e predilezione: “Io sono con-te e per-te. Tu sei con-me e per-me”. La mia predilezione ti mette sempre al primo posto. Nella relazione di appartenenza è cercato il benessere reciproco, è presente la serenità, la giocosità ed è praticata la gratitudine.

Narcisismo. Vi è inoltre un terzo significato dell’aggettivo mio, di tipo identificativo. La mia squadra è l’Inter, sta per “io sono interista”; la mia professione è l’insegnamento sta per “io sono un insegnante”. Quando l’Io-sono prevale sul Noi di copia si apre un altro scenario non meno inquietante e distruttivo della possessività. Si tratta del vincolo di conferma narcisista, dove l’Altra, raramente l’Altro, riveste il ruolo di dimostrazione e garanzia dell’Io: “Tu servi a confermarmi”. Trattasi del ruolo dell’ombra o dell’eco. Conosciamo tutti l’esempio dell’ottuagenario che si accompagna o ‘si fregia’ della ventenne/trentenne, né più né meno come di una Ferrari: uno status symbol! La ninfa Eco innamorata di Narciso non ha voce propria, è l’eco di Narciso. “Tu esisti, servi per confermarmi”. Questa donna non ha una sua dignità, se non la funzione di fare da eco, che certifica in modo adorante Lui, il narciso… Per spiegare in modo forte questo concetto recentemente ad alcune classi di studenti mi è capitato di fare la seguente domanda: “Se andate in chiesa e volete sapere in quale tabernacolo è riposta la pisside con le particole consacrate, come fate?” Risposta: “Cerco l’altare dove c’è la lampada con la fiammella di colore rosso.” “Ebbene, capirete come funziona il vincolo narcisista, immaginando la funzione della compagna come il lumicino che serve solo ad indicare Lui, il narciso… il santissimo sacramento!”

Ma che succede quando una siffatta relazione non è più accettata? Si tratta del venir meno dell’idea grandiosa che ha di sé in seguito al fallimento della relazione per il rifiuto e l’abbandono di lei. Incredibilmente il narcisista è costretto a prender atto della funzione di conferma venuta meno. Il conseguente cosiddetto ‘crollo narcisistico’ sarà gravido di conseguenze distruttive.

Funzione della tristezza. Quando nella relazione compare il No, l’abbandono, o anche quando si fallisce, non si ha successo e ci si deve confrontare con la perdita, allora l’emozione che seguirà sarà la tristezza, l’emozione che ha la funzione di elaborare la perdita. In natura quando un animale è ferito e dolorante si nasconde per guarire e riprendere le forze. La tristezza ha la funzione di diluire nel tempo il dolore della perdita. Quando ciò non accadesse si andrebbe incontro al crepacuore o a reazioni inconsulte. Ricordo da bambino i casi di copie di anziani che morivano in date vicinissime. Gli adulti dicevano che il sopravvissuto della copia, che moriva a breve di seguito, era stato sopraffatto dal crepacuore. Nel caso di relazione fortemente caratterizzata da possessività e/o da narcisismo il No, l’essere lasciati, non è contemplato e tantomeno elaborato, per cui il compito della tristezza fallisce e rimane alla prima fase di rifiuto e rabbia. A quel punto la tristezza diventa disperazione, perde la sua funzione di elaborazione, perdura nel tempo diventando una gabbia depressiva. Gli americani la chiamano “helplessness” impotenza o incapacità ad aiutarsi.

La tristezza è un’emozione complessa, che annida la rabbia, la paura, il senso di colpa o la vergogna e l’avversione. I miei trascorsi di psicoterapeuta mi hanno fatto scoprire che gli eventi successivi ad una tristezza, che fallisce e rifiuta l’accettazione della perdita, saranno determinati prevalentemente da una di queste emozioni annidate. Rabbia ed avversione scatenano la distruttività, vedi il femminicidio, mentre la paura, il senso di colpa e la vergogna portano all’autodistruttività, cioè al suicidio, cosa di cui si parla poco. Se però si facesse una rapida ricerca in internet, si verrebbe a scoprire che a fronte delle 109 donne uccise nel 2023, fino al 3 dicembre, di cui 90 in ambito familiare o affettivo, di cui 58 uccise da partner o ex partner, corrisponde il suicidio di 200 mariti o padri (statistica tutta da verificare) in seguito alla separazione e al conseguente allontanamento dai figli.

In ambo i casi il dato comune è l’analfabetismo emozionale che sta in capo al sequestro emotivo che priva ed inibisce la capacità di elaborare la tristezza, aprendo alla possibilità che i comportamenti distruttivi producano i frutti di morte della cronaca quotidiana.

Ogni buon educatore sa che si educa più con i No che con i Sì: è matematico! Infatti scegliere è il dire Sì ad una opzione e No a tutte le altre. Scegliere uno sport, un gioco, un cibo ecc. può voler dire di No agli altri sport, agli altri giochi, agli altri cibi ecc.

Educare al No, al limite, al proibito è compito ineludibile di ogni genitore ed educatore, perché chi non si fosse confrontato fin da bambino col quotidiano No delle regole e delle proibizioni, i principini e i piccoli despoti incontrollabili, reagiranno in modo disadattivo di fronte al No espropriante d’una donna.


[1] Timologia, è la scienza che studia le emozioni ed ogni altro sentire come funzioni corporee necessarie nell’interazione vitale con l’ambiente in cui il vivente si sviluppa.Il termine timia, include tutti gli stati emotivi (umori, emozioni, sentimenti, passioni, atteggiamenti), la pensabilità emotiva e la motivazione. Deriva dal verbo greco timào e dal relativo sostantivo timé.Il verbo usato in vari contesti con sfumature diverse indica lo stimare, il valutare, il pagare, il tassare, l’onorare e il segnalare, e quindi il sostantivo indica il pagamento, la stima, la valutazione e la determinazione del valore. L’altro sostantivo thimòs indicail principio della vitalità e l’anima emotiva, in particolar modo il respiro e in senso più ampio l’animo e il cuore come sede delle passioni.

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